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MANIFESTO

Storicamente il sistema del training psicoanalitico ha presentato serie criticità che non sono mai state superate. Queste criticità sono state individuate e discusse soprattutto rispetto al training regolamentato dall’I.P.A., ma riguardano anche le altre organizzazioni e i piccoli istituti locali, ancor più isolati dalla comunità psicoanalitica.

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L’apertura ad altri modelli e un continuo confronto d’idee e proposte rappresentano, infatti, il solo antidoto alla tendenza del sistema a richiudersi su se stesso.

Fin dall’inizio, l’istituzionalizzazione della formazione dello psicoanalista (iniziato con l’Istituto di Berlino e il modello tripartito, ispirato da Max Eitingon) venne criticata da Ferenczi e Rank (1924)  per la sua tendenza ad anteporre all’esperienza clinica dei candidati l’insegnamento intellettuale e l’indottrinamento. Bernfeld (1962) mise in rilievo come il modello del training  dominante fosse “centrato sul corpo docente [faculty]” invece di essere “centrato sullo studente”, anche perché dominato da quello che egli definiva “lo spirito prussiano” presente nel gruppo dei berlinesi.  Sia Loewald (1956) che Kernberg (1996) hanno poi insistito sull’importanza di offrire ai candidati  la possibilità  di partecipare alla presentazione di casi clinici e alla loro discussione con spirito critico. Le conseguenze autoritarie del sistema dell’analisi di training, la standardizzazione dei programmi di formazione, l’eccessiva burocratizzazione del training, fu poi criticata da innumerevoli fonti. Nonostante il proliferare delle scuole, degli indirizzi e il clima pluralista, fino ad oggi è rimasto costume degli istituti l’affidare l’insegnamento agli “insiders”, secondo una gestione “familiare” del corpo docente (faculty), invece di aprirlo ad “outsiders” ben più autorevoli (Esold, 2004).

 

Nella sua nota e insuperata disamina critica del sistema del training psicoanalitico, Michael Balint (1948, p. 167) ne ha sottolineato la somiglianza con i riti primitivi di iniziazione, il cui scopo generale consiste nel “forzare il candidato a identificarsi con il proprio iniziatore, introiettare l’iniziatore e i suoi ideali e costruire a partire da queste identificazioni un forte super-io che lo influenzerà nel corso dell’intera vita”.

 

A ciò si aggiungeva la “sorprendente scoperta” che, in contrasto con lo scopo dichiarato del training, ossia che il candidato acquisisca “un io dotato di grande forza critica e capace di sopportare tensioni e stress”, il modo in cui gli Istituti operavano produceva un “indebolimento di queste funzioni dell’io e il costituirsi e rafforzarsi di un tipo speciale di super-io”.

 

Forti critiche sono venute anche dall’interno del sistema. Arlow (1972), abbracciando il suggerimento di Balint di considerare il training psicoanalitico come un rito primitivo d’iniziazione, scrisse:

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 “Durante il lungo periodo delle prove cui l’iniziato deve sottostare (analisi personale, ammissione ai corsi, primo caso, secondo caso, ecc., prova finale), gli analisti didatti [training analysts] hanno la doppia funzione di ogni iniziatore. Alcuni intimidiscono i candidati, altri li sostengono e guidano. Nella mia precedente comunicazione ho indicato che alla fine il risultato è lo stesso: l’ansia spinge il candidato a operare un’identificazione con l’aggressore; l’iniziato rimodella se stesso a partire dall’immagine che la comunità mantiene come l’ideale.” (p. 562).

 

Esplorando quella che chiamava la “mitologia del training psicoanalitico” (Arlow, 1970, 1972), Arlow arrivò alla conclusione che la natura stessa del programma psicoanalitico alimentava “l’aura di onnipotenza e onniscienza che circonda l’immagine dell’analista con funzioni di training” e che tale immagine “si presta a confondersi con un ideale dell’io arcaico, facendosi luogo di proiezioni di illusioni infantili di grandiosità” (Arlow, 1968).

 

Seguendo il medesimo filone di pensiero, in epoca più recente, Emanuel Berman (2004), ha messo in evidenza come all’origine di tali idealizzazioni vi sia la fantasia utopica di una “persona nuova” che dovrebbe scaturire da una relazione analitica condotta secondo i canoni di una “tecnica corretta” standardizzata,  trasmissibile attraverso un processo di formazione che si protrae per molto tempo in un clima societario saturo di autoritarismo e persecutorietà, dal quale  scaturirebbe un “falso sé professionale”, la cui elaborazione richiede un tempo estremamente lungo di vita professionale dominata da una condizione infantilizzata.

 

Tale complesso di idealizzazioni è a sua volta favorito dall’idea, già criticata da  Fromm (1947), che l’analista sia dotato di una “salute mentale superiore” e dal “mito” dell’analisi come interazione tra una persona sana e una persona malata (Racker, 1968), mito che, secondo Levenson (1992), rappresenta un retaggio delle radici mediche della psicoanalisi ed è infiltrato da un sottile disprezzo per il paziente e da una sistematica svalutazione della sua esperienza in quanto parte malata e sofferente.

 

E’ questo un aspetto paradossale della storia della psicoanalisi: mentre l’autoanalisi di Freud aveva in un colpo avvicinato il medico al paziente fino a quel momento visto come “alienus” anziché come “alter”, lo sviluppo successivo della storia del movimento psicoanalitico ha, per un lunghissimo ciclo di tale storia, neppure oggi del tutto esaurito, ristabilito tale distanza.

 

La potente critica di Sándor Ferenczi verso le tecniche che alimentano un’immagine dell’analista come “onnisciente”, il suo grande rispetto per il dolore del paziente, il suo aver posto l’accento sulla soggettività sia del paziente che dell’analista, la sua critica sistematica a ogni tipo di terapia basata sulla “identificazione” con l’analista e con gli ideali del gruppo, e sulla sostituzione di un super-io con un altro, la sua idea di reciprocità e la sua convinzione che l’analista si debba mettere in gioco anche come persona e che debba consentire di essere criticato dal paziente, il suo coraggio di sperimentare e il suo non aver paura di sbagliare, sono tutti suggerimenti che possono in parte limitare il carattere iatrogeno che il training psicoanalitico ha avuto nel passato e può continuare ad avere nel futuro.

 

Sebbene, come nota Judith Dupont (2015, p. 75) nel suo ultimo libro, ci siano sempre state “un certo numero di persone che arrivano a essere analisti a dispetto di tutto e nonostante tutto”, crediamo che il taining psicoanalitico, pur rispettando dei criteri minimi, non debba essere standardizzato, ma bensì articolato, modulare, flessibile, al fine di adattarsi a ogni candidato, aiutandolo a costruirsi un percorso formativo personale e individualizzato.


 
UN NUOVO MODELLO DI ISTITUTO DI TRAINING  
Pur mantenendosi nel solco della tradizione del modello tripartito (analisi personale, supervisioni, insegnamento), l’Istituto di training della SIPeP-SF propone una formazione psicoanalitica “centrata sul candidato,” consentendo a ognuno di trovare i propri tempi e di definire i propri percorsi. 


In questo compito siamo facilitati dal fatto di poter accettare soltanto candidati che abbiano già completato la prima importante fase della loro formazione di psicoterapeuti, essendosi diplomati presso una scuola di psicoterapia o di psicologia clinica, e intrapreso un’esperienza di analisi personale.

 

L’iscrizione al training è aperta solo ai soci SIPeP-SF; la tassa di iscrizione  è minima, e proporzionata alle esigenze amministrative dell’Istituto.

 Al momento dell’ammissione possono essere accreditate e inserite nel libretto personale esperienze formative pregresse convalidate dal Comitato del training (v. Regolamento al punto 1) in quanto considerate rilevanti.  
 
Analisi individuale

Per quanto riguarda l’analisi individuale non viene fatta alcuna discriminazione in merito alla società o alla scuola di appartenenza dell’analista personale. Si richiede soltanto che l’analista sia persona nota e inquadrata in una società psicoanalitica, e provvista di un metodo di lavoro compatibile con i requisiti previsti dalla SIPeP-SF per i futuri analisti in training. Non si fa distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia a orientamento psicoanalitico, e sebbene sia fortemente raccomandato che il candidato faccia esperienza di analisi o fasi di analisi a non meno di tre sedute la settimana, sia come paziente che come terapeuta, il numero di sedute settimanali, essendo criterio estrinseco, non viene ritenuto di per sé qualificante. Similmente si raccomanda che il candidato faccia esperienza del vis-à-vis e del lettino sia come paziente, sia come terapeuta. 
 
Supervisione

Per la supervisione individuale e di gruppo, l’Istituto mette a disposizione una serie di soci analisti con funzioni di training. E’ inoltre previsto che i candidati possano essere seguiti in supervisione da analisti con funzioni di training appartenenti ad altre società, espressamente riconosciuti dalla SIPeP come “analisti di training esterni”. 
 
Insegnamento

Il numero degli eventi formativi interni (per lo più seminari clinici) sarà limitato a due all’anno, e per questi sarà prevista una quota di iscrizione obbligatoria. Per il resto, ogni candidato potrà scegliere di partecipare alle esperienze formative che ritiene più indicate, purché accreditate come valide ai fini del training dal Comitato stesso. Il candidato può anche proporre di sua iniziativa esperienze formative da sottoporre al Comitato. In ogni caso il curriculum deve comprendere una prevalenza di eventi formativi di orientamento ferencziano. 
 
Psicoterapia infantile e di gruppo

Si riconosce una specificità sia alla psicoterapia infantile che alla psicoterapia di gruppo. Conformemente, l’Istituto di Training si propone di introdurre percorsi formativi specifici e differenziati.    

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Programma

Il lascito ferencziano e i suoi sviluppi storici (Balint, N. Abraham e Török, e altri) e contemporanei (Haynal, Berman, Borgogno, e altri) sono ritenuti particolarmente importanti ai fini della formazione. A titolo indicativo s’individuano i seguenti temi di base:

  1. L’area del trauma, con la segmentazione e frammentazione della psiche e dell’esperienza storica di sé (adozioni, cesure esistenziali precoci, interruzioni post-traumatiche della memoria autobiografica), il sequestro di parti del sé, l’area del difetto fondamentale come descritta da Balint, la pervasiva tendenza alla ripetizione del trauma, come pure le difese dalla o nella ripetizione – fobie, inversione di ruolo, perversione e traumatofilia – le molte forme della trasmissione del trauma.

  2. L’area dei “trapianti estranei”, della introiezione/incorporazione e il meccanismo della identificazione con l’aggressore.

  3. Il principio del “repeat/repair”, l’idea della relazione come fulcro della terapia e i suoi corollari di elasticità, empatia, simpatia, e testimonianza;  

  4. L’area della comunicazione sia verbale che non-verbale nella interazione analista-analizzando e le sue diverse declinazioni a seconda della fase del processo terapeutico (tecnica attiva nelle fasi iniziali in cui predominano le difese nevrotiche, il rilassamento nella fase regressione, e la reciprocità come metodo per affrontare le impasse). 

 

 

 

Bibliografia

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Arlow, J. A. (1970). Chairman's Report, Board of Professional Standards, San Francisco, Annual Meeting.

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Arlow, J. (1972), Some dilemmas in psychoanalytic education. J. Amer. Psychoanal. Assn., 20: 556-566.

​

Arlow, J. (1998),  Lettera di Arlow a Carlo Bonomi, 12 febbraio 1998.

​

Balint, M. (1948), On the psychoanalytic training system. Int. J. Psycho-Anal., 29: 163-173.

​

Berman, E. (2004), Impossible Training. A Relational View in Psychoanalytic Education. New York: Routledge.

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Bernfeld, S. (1962), On psychoanalytic training. Psychoanal. Q., 31: 453-482.

​

Dupont, J. (2015). Au fil du temps … Un itinéraire analytique. Paris: Campaigne Première.

 

Eisold, K. (2004). Psychoanalytic Training: The “Faculty System”. Psychoanalytic Inquiry  24: 51-70.

 

Fromm, E. (1947). Man For Himself. New York: Holt, Rhinehart and Winston.

 

Kernberg, O. F. (1996), Thirty methods to destroy the creativity of psychoanalytic candidates. Int. J. Psycho-Anal., 77: 1031-1040.

 

Levenson, E. A. (1992). Mistakes, errors, and oversights. Contemporary Psychoanalysis,  28: 555-571.

 

Loewald, H. W. (1956), Psychoanalytic curricula—Principles and structure. J. Amer. Psychoanal. Assn., 4: 149-161.

 

Racker, H. (1968). Transference and Countertransference.  New York: International Universities Press. 

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